Referendum e rete: un breve ragionamento illuminante

A forza di citarli mi accuseranno di piaggeria, ma spesso ritrovo nei post di Wu Ming cose nelle quali non posso fare a meno di riconoscermi, ed a volte (tuttaltro che raramente!) cose per le quali mi chiedo “ma perchè io non sono riuscito mai a dirlo così chiaramente?!”.

Del resto ci sarà un motivo se loro hanno pubblicato una notevole mole di volumi, tutti di successo, e sono stati tradotti in molte lingue ed io invece mi accontento di dire la mia su questo blog no?!

Lascio dunque più che volentieri la parola all’ultimo post di Wu Ming su GIAP – La stanza dei bottoni.

Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete”

Il problema dell’esultanza di questi giorni sul ruolo “della rete” e del “popolo della rete” è la riduzione del molteplice a Uno: “LA rete”, “IL popolo della rete”… Come se Internet fosse una cosa, e chi la usa fosse un blocco sociale contrapposto a un altro. Quindi “la TV” (cioè… Berlusconi) sarebbe stata sconfitta da “la rete” (cioè il popolo onesto e libero). Anni e anni di analisi sulla “convergenza” sostituiti da una sorta di “mito tecnicizzato dei social network”.

Internet è un coacervo di pratiche contraddittorie: alcune sono pratiche di liberazione, altre producono nuovi assoggettamenti. La dicotomia “TV vs. Internet” è superata in tempi di convergenza, in Italia la sua retorica resiste perché c’è Berlusconi a curvare lo spazio. A meno di non pensare che la TV sia ancora il televisore, oggi TV e rete sono innervate e saranno sempre meno distinguibili. Ormai dire “la rete” significa dire tutto e niente. TV, radio e giornali sono on line, hanno profili sui social network, fanno crowdsourcing. Scambiare Minzolini, Fede o Mimun per “la TV” e dire che la rete buona li ha sconfitti non aiuta granché a capire.

E quando “la rete” è agita da pratiche non liberanti ma mostruose (pogrom virtuali, manifestazioni d’odio), il “popolo della rete” chi è?

Tra l’altro, non c’è parola più ambigua di “popolo”. E’ ancora una volta l’Uno anziché il molteplice. Come se ci fosse la Volontà Generale.

Insomma: Berlusconi, finché sta in mezzo alle balle, “berlusconizza” e mantiene arretrato (perché reattivo) ogni discorso. Berlusconi non ha prodotto solo altri partiti-persona e culti della personalità (cfr. Grillo, ma il “vendolismo” non è immune): Berlusconi ha prodotto retoriche che rimandano sempre a lui. E se lui è “la TV” ed è vecchio e “analogico”, allora la rete è sua nemica. Così ci libereremo finalmente di Berlusconi, ma la nostra ricostruzione della sua caduta sarà sballata, feticistica, tecno-utopica. Penseremo che a buttar giù Berlusconi sia stato Twitter. “La crisi? Quale crisi?” E sopravvaluteremo l’impatto di alcune pratiche, penseremo che fare un mash-up sia moooooolto più che fare un mash-up.

Internet non è un altro mondo, è questo mondo. C’era chi voleva darle il Nobel per la pace, ma Internet fa anche la guerra. Internet è lavoro oggettivato. La rete è relazioni di produzione, di proprietà, di potere. Usiamo strumenti di proprietà di multinazionali. Internet è un luogo di conflitti. Come un posto di lavoro (è anche quello), un terreno su cui si specula (idem), un teatro di guerra.


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